Anoressia: ecco la cura “shock”
Una cura “shock” contro l’anoressia? I ricercatori della University Health Network di Toronto, hanno pensato bene di sperimentare una terapia innovativa contro questo disturbo, impiantando un pacemaker nel cervello di alcune pazienti anoressiche.
Anoressia e pacemaker – La cura
Stimolazioni neurali mediante pacemaker per placare stress, ansia e regolare l’umore. A coordinare la sperimentazione, il dottor Andres Lozano, che sfruttando la risonanza magnetica, è riuscito ad identificare una specifica area cerebrale (il corpo calloso) ove impiantare gli elettrodi connessi a un generatore di impulsi immesso sotto pelle.
La scelta di questa area cerebrale, è ascrivibile al fatto che, alterazioni della suddetta erano già state riscontrate sia nei pazienti depressi sia in quelli anoressici.
Per dar vita al test i ricercatori si sono avvalsi sia della collaborazione di 10 donne interessate da una grave forma di anoressia. Di quest’ultime, in seguito al trattamento, la metà ha dimostrato un miglioramento dell’umore e dell’indice di massa corporea.
Anoressia e pacemaker – Considerazioni
E’ lecito pensare di curare questo disturbo con l’ausilio di uno strumento tanto invasivo come un pacemaker? L’uso di un sistema tanto radicale è molto probabilmente dovuto al fatto che, l’anoressia, se in fase avanzata, può risultare piuttosto difficile da curare.
Ad oggi, questo disturbo finisce con il rappresentare una vera e propria emergenza sanitaria nelle nazioni occidentali e, statistiche alla mano, questa piaga sarebbe in continua espansione.
Un’altra peculiarità dell’anoressia, è il fatto di essere tipicamente femminile, nel 95% dei casi, infatti, questo disturbo è rintracciabile nelle rappresentanti del gentil sesso.
Una ricerca condotta di recente, basata su numerose pubblicazioni provenienti da diverse nazioni del mondo, ha messo in evidenza il fatto che l’anoressia nervosa tende ad essere più diffusa nelle nazioni progredite dal punto di vista industriale. Alla luce di ciò, dunque, sarebbe lecito definirla una sorta di “sindrome culturale”.
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